Al Green Cooling Summit, tenutosi online a fine maggio e ospitato da UBA – Agenzia tedesca per l’Ambiente, dal GIZ Gesellschaft für Internationale Zusammenarbeit (Società per la Cooperazione Internazionale) – e dal Ministero per l’Ambiente, si è parlato di alternative HFC-free per la refrigerazione e il condizionamento del futuro.
Tra le varie citazioni fatte, si è richiamato il famoso articolo pubblicato nel 2020 nella rivista “Journal of Chemical and Engineering Data, dal titolo “(R)Evolution of Refrigerants“, McLinden e Huber affermano: “È quasi certo che i refrigeranti continueranno ad evolversi in futuro (…). Le molecole tra cui scegliere sono quasi certamente conosciute già oggi. I vincoli in futuro potrebbero essere allentati (ad esempio, per consentire fluidi più infiammabili) per consentire un ODP superiore a zero ma molto basso in cambio di un GWP molto ridotto; oppure potrebbero diventare più rigorosi, facendo considerazioni più ampie sulle conseguenze ambientali dei refrigeranti per includere anche gli input legati alla loro fabbricazione e/o l’impatto dei loro prodotti di degradazione nell’atmosfera”.
Mentre è certo che anche nel secondo caso le molecole naturali non presenteranno mai problemi, meno solida è questa certezza per alcuni refrigeranti sintetici per i quali vi sono studi che sollevano dubbi di ecosostenibilità sui prodotti della loro degradazione. Il più recente di questi studi, i cui risultati ancora non sono confermati dalla scienza perché in via di peer review (stato: giugno 2021), presenta una ricerca condotta da Dr. Christopher Hansen et al. – Università South Wales, Australia, Scuola di Chimica – in cui si dimostra il destino che potrebbe subire la molecola di HFO-1234ze (CHF=CH-CF3) una volta rilasciata in atmosfera. Tale ricerca è stata presentata durante il Summit. Gli Autori hanno raccolto evidenze che una delle molecole della decomposizione fotochimica finale di questo HFO è HFC-23. Ma proviamo ad andare con ordine. Nell’articolo si legge: «È noto che la decomposizione in atmosfera di HFO-1234ze porta alla formazione di trifluoroacetaldeide (CF3CHO) che poi può essere rimossa velocemente dall’atmosfera via fotolisi. Studi che risalgono ormai agli Anni ’50 suggeriscono che questa fotolisi dia origine a radicali trifluorometilici (CF3) e al gruppo funzionale formile (CHO) che poi reagiscono e danno CO2 and HF».
Talora, però, l’assorbimento di fotoni ultravioletti (quindi ad alta energia) da parte dell’intermedio CF3CHO può dare origine a una chimica diversa e formare CHF3, altrimenti noto come trifluorometano, altrimenti noto come HFC-23 (GWP 12.400). Dallo studio risulta chiaro che solo una minoranza delle molecole intermedie CF3CHO subisce questo destino. Secondo gli Autori si parla dell’11.0 ± 5.5 % delle molecole dell’intermedio CF3CHO presenti in atmosfera. Tale reazione vale, tra l’altro, per tutte le molecole che hanno CF3CHO come intermedio di degradazione.
Se l’articolo dovesse essere approvato e quindi i risultati validati dalla comunità scientifica, cosa succederebbe? Affermano gli Autori: «Questo potrebbe significare un ricalcolo del GWP del refrigerante in questione che risulterebbe più alto».
Questo caso pare interessante perché calza a pennello proprio con la seconda delle ipotesi formulate da McLinden e citate all’inizio di questo testo, sulle considerazioni più ampie da fare considerando un refrigerante, ad includere la sua produzione e la sua degradazione. Nulla di nuovo, in fondo: si chiama analisi del ciclo di vita e ormai la si conduce per una miriade di prodotti. Perchè non farla anche per i refrigeranti tutti? Questo articolo, indipendentemente dai risultati del processo di peer review, indica che una analisi del ciclo di vita sarebbe più che appropriata.
Per una più chiara, corretta e approfondita esposizione della chimica a riguardo: QUI e QUI l’articolo citato.
QUI una presentazione dello studio da parte degli Autori (dal minuto 25:20)